Taiwan in salsa di soia

Taiwan in salsa di soia
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Ci hanno provato anche con i panda. Le autorità cinesi spesso adottano quella che è stata appunto chiamata “diplomazia del Panda”, utilizzando come augurio di pace l’omaggio ufficiale del pacifico animale. Anche i panda, quindi, possono essere utili per tentare di riunire i destini di Taiwan e della Cina, separati dal 1895, da quando la guerra con il Giappone obbligò il Celeste Impero a cedere l’isola agli storici rivali.

Infatti i precedenti tre secoli della storia di questa piccola isola del Mar Cinese Meridionale, erano stati legati alla Cina. Nel 1683 una rivolta dei sostenitori dei Ming viene repressa dagli imperatori della nuova dinastia Qing. Vengono cacciati sia i ribelli sia gli Olandesi, i colonizzatori europei che circa sessant’anni prima avevano trovato un’isola abitata da popolazioni aborigene di etnia malese. Gli Europei la chiamano per molto tempo col nome di Formosa: erano stati i marinai di un galeone portoghese, che vi si era riparato nel 1517 durante un fortissimo uragano, a chiamarla “Ilha Formosa”, cioè bella. Il toponimo usato dai cinesi è probabilmente la traslitterazione della traduzione del nome europeo, Tayuan, anche se qualcuno preferisce pensare che significhi “Terrazze sulla Baia”.

Nel 1895, dicevamo, alla fine della guerra sino-giapponese per il predominio sulla Corea, i Giapponesi si impadroniscono dell’isola, che torna alla Cina alla fine della seconda Guerra Mondiale, in seguito alla disfatta del Sol Levante. Ed è subito dopo la fine del conflitto mondiale che inizia la sua singolare storia, quando in Cina si fronteggiano le truppe comuniste di Mao

Taipei

Tse Dong e l’esercito nazionalista del Guomindang, guidato da Chiang Kai Shek. La guerra civile si conclude nel 1949 con la vittoria della Repubblica Popolare Cinese di Mao e i nazionalisti si rifugiano a Taiwan, proclamando la Repubblica della Cina Nazionale. Il generale Chiang

aveva ben valutato il disastro del “Grande Balzo”, la rivoluzione culturale di Mao, ma quando chiede agli Stati Uniti di appoggiarlo nel tentativo di riconquista del potere, Washington non gli crede: è ancora troppo fresco l’impegno nella guerra di Corea. In Cina, oggi, c’è chi ammette che se Chiang Kai Shek nei primi anni Sessanta avesse tentato l’invasione di una Cina impoverita dal comunismo, avrebbe forse potuto avere successo.

La storia recente è quindi un lungo braccio di ferro con Pechino. Se questa situazione ha favorito Taiwan nel primo ventennio, quando la Cina di Mao era di fatto esclusa sia dal blocco occidentale sia da quello sovietico, è invece cambiata in favore di Pechino a partire dalle prime aperture di Kissinger negli anni Settanta. Il primo scossone arriva infatti nel 1971, quando l’ONU decide di espellere Taiwan ed assegnare il seggio nel Consiglio di Sicurezza alla Repubblica Popolare, atto che ha come conseguenza un sempre minore riconoscimento internazionale dell’isola. Nel 1975 Chiang Kai Shek muore e gli succede il figlio fino al 1988, e nel 1976 se ne va anche Mao. Un cambio totale di scenario, senza i principali protagonisti.

Taipei, Tempio di Confucio

Gli anni successivi vedono un’apertura verso i “nativi”, la popolazione che abitava l’isola prima dell’arrivo dei nazionalisti, e diversi tentativi  di accordo tra Taiwan e Pechino. In occasione del terribile terremoto che nel 1999 devastò un territorio a 150 km da Taipei, per esempio, Pechino ha offerto il suo aiuto concreto. Ma la parola “indipendenza” rimane tabù, il Celeste Impero teme che una dichiarazione d’indipendenza da parte di Taiwan provochi un “effetto domino” in territori abitati da etnie non cinesi, come il Tibet, o lo Xinjiang degli Uiguri,  affermando perfino di considerare un intervento armato sull’isola, nel caso la “provincia ribelle” proclamasse la piena autonomia di fatto.

L’economia dell’isola è sempre stata condizionata dal gigante continentale, anche oggi la maggior parte degli scambi commerciali avviene con Pechino, ma i due Paesi conducono una vera e propria guerra diplomatica, soprattutto attraverso i piccoli Stati del Pacifico, senza esclusione di colpi. Come ad esempio nel 2004 a Vanuatu, il cui primo ministro, appena nominato e palesemente favorevole a Taiwan, fu rovesciato da una rivolta popolare. Ormai sono soltanto 23 i Paesi che riconoscono la sovranità di Taiwan: la maggioranza delle potenze mondiali, per paura di inimicarsi la Cina, non ha relazioni ufficiali con Taipei, anche se quasi tutti hanno una rappresentanza diplomatica non ufficiale. Nel 2016, per la prima volta nella sua storia, il popolo di Taiwan elegge una donna, Tsai Ing-wen, alla carica di Presidente.

La cultura popolare rimane comunque cinese, per esempio nella lingua, ma con il passare degli anni cresce la “taiwanesità”, una cultura taoista con forti influenze occidentali, soprattutto americane. In un Paese in cui l’analfabetismo non esiste, i giovani, che oggi amano più gli hamburger di McDonald’s che il tè cinese, non potrebbero pensare ad un futuro inglobato nella grande Cina, soprattutto alla luce delle proteste che si vedono ad Hong Kong ed in altri territori annessi dalla Repubblica Popolare. È però forte l’emigrazione dei giovani taiwanesi verso la Cina continentale, attratti dalle maggiori opportunità di lavoro.

 

Qui a Torino, durante l’ultima edizione di Terra Madre, la manifestazione ideata e curata da Slow Food, abbiamo scambiato due chiacchiere con Giovanna Chen, titolare di una piccola azienda familiare, la Wu Wan Wo (che significa “non dimenticarti di me”), produttrice a Taiwan di salsa di soia artigianale.

Da quanto tempo la vostra famiglia svolge quest’attività?

La nostra famiglia produce questa salsa da almeno quattro generazioni. Noi insistiamo nel fabbricare la salsa in maniera artigianale, anche se i nostri genitori sono già stanchi, volevano già chiudere. In poche parole, cinque anni fa noi abbiamo deciso di riprendere l’attività e il metodo artigianale che loro avevano interrotto.

Fate tutto a mano o vi servite di macchinari?

Tutto a mano! Per realizzare la salsa di soia, ingredienti fondamentali sono il sale e la soia; dobbiamo far fermentare la soia mediante cottura a vapore. Quando è cotta, la sistemiamo in una stanza caldo-umida per circa tre settimane. Ma questa è soltanto la prima fermentazione. Dobbiamo seguirla e controllare che non fermenti eccessivamente, difficile quindi utilizzare delle macchine. Dopodiché mettiamo il tutto dentro la terracotta, uno strato di sale, uno strato di soia fermentata e così via, e lo mettiamo al sole per un periodo che va da un minimo di 180 giorni ad un massimo di due anni. Lavorazione lunga, quindi, e si può fare soltanto a mano. Abbiamo poca resa, per questo pochi produttori di salsa di soia hanno voglia di andare avanti con questa tradizione. Ad oggi, noi siamo gli unici produttori in Taiwan ad utilizzare questo metodo tradizionale.

Da quante persone è composta la vostra famiglia? Lavorate tutti in questa produzione, o qualcuno ha scelto un altro lavoro?

Siamo in quattro. Prima di tornare a fare questo lavoro noi due lavoravamo nel marketing, per un’azienda di importazione di prodotti dall’Italia.

Avete dipendenti?

No, nessun dipendente. Riusciamo a produrre duemila bottiglie all’anno, non ce la facciamo nemmeno a sostenere noi stessi, non saremmo in grado di retribuire anche dei dipendenti.

Qual è il pericolo più grosso, per il vostro lavoro?

L’unico rischio che abbiamo noi è di non trovare clienti. Altro rischio potrebbe essere il clima, la natura: se un anno la natura non ci regala il sole, noi non riusciamo a far maturare la nostra salsa di soia. Il clima quindi può rappresentare un pericolo, ma dobbiamo rispettarlo.

Secondo voi l’agricoltura familiare resisterà, o verrà sconfitta dalle grandi industrie?

Viene sempre sconfitta dalla grande industria. La nostra salsa di soia, parlando del nostro settore: la grande industria ne fa un milione di bottiglie all’anno, noi ne facciamo duemila: il loro prezzo è un decimo del nostro, quindi dobbiamo combattere ogni giorno, spiegare ai consumatori qual è la differenza, perché facciamo quest’attività, e così via. Finché insistiamo, non ci facciamo eliminare. Teniamo duro.

Avete altri incontri come Terra Madre, nel vostro Paese, con gli altri produttori?

Non so come funzioni in Italia. Taiwan è un’isola, e gli isolani in genere si chiudono in se stessi, tendono a non collaborare l’uno con l’altro. Noi dimostriamo di avere una mentalità molto più aperta, venendo qui, per conoscere i membri di Terra Madre di altri Paesi, rispetto ai membri di Terra Madre di Taiwan, dove ognuno lavora per il proprio interesse.

Come in Italia.

Forse, però nel settore di Terra Madre siamo molto aperti, condividiamo il nostro modo di lavorare. Addirittura anche con i nostri amici cinesi, che sono perfino più aperti dei Taiwanesi. Vengono qua, collaboriamo, parliamo… Di solito non è così, noi Taiwanesi non siamo molto uniti. Difficile, quindi, fare accordi per diventare più forti.

Quindi ha già risposto a quella che doveva essere la mia domanda successiva. Sentite di rappresentare tutto il Paese, o soltanto una minoranza?

Noi ci sentiamo una minoranza, in effetti, perché il Paese non si interessa. Noi ci muoviamo sempre a spese nostre, con i nostri soldi, l’associazione Slow Food Taiwan non ci viene neanche incontro.

Ah, strano. Ma che rapporti avete con il vostro Governo?

Quando diventiamo famosi il Governo ci è vicino, ma finché siamo piccoli, niente, si tiene a distanza. Se vendiamo un milione di bottiglie siamo importanti, finché invece facciamo cose da duemila bottiglie, no. Niente.

Ultima domanda: avete un sogno?

Sì, perché no? Il nostro sogno è far capire, un giorno, a tutte le persone del pianeta, cosa significa “lavorazione artigianale” per fare una salsa di soia, far capire una volta per tutte come funziona. È importante far conoscere il lavoro che c’è dietro una produzione artigianale rispetto ad una industriale.

 

 

 

 

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