Modou, il calzolaio di Dakar

Modou, il calzolaio di Dakar
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Teranga: “In lingua Wolof, significa accoglienza, ospitalità, ma in realtà è qualcosa di più: significa considerare l’ospite come un valore che arricchisce”.

Modou Faty Diouck, 38 anni, è arrivato in Italia a 23, nel 2007, da Dakar, Senegal. Oggi fa il calzolaio a Torino, ma la strada è stata molto difficile, per lui, e ci racconta volentieri la sua storia.

A Dakar lavoravo come calzolaio, era il lavoro di mio padre e di mio zio: lavoravo con mio padre da quando avevo 13 anni, realizzavo scarpe da donna. A 17 anni mi sono messo in proprio, a 23 avevo cinque dipendenti. Il locale era più piccolo di questo, ma lavorando tutti seduti al bancone ci trovavamo bene. Producevamo cento paia di scarpe in tre giorni: un buon risultato, direi. Non facevamo molte riparazioni, solo realizzazione di nuovi prodotti. È stato mio padre, un giorno, a spingermi: Modou, mi diceva, tu devi andare all’estero, perché sei bravo, lavori bene, e devi andare dove potresti avere maggiori soddisfazioni. Ha insistito finché non gli ho dato ascolto, ho preso l’aereo e sono venuto qui a Torino”.

È stato difficile, l’inizio?

Molto difficile. Non ero preparato, non si è mai preparati ad affrontare le vere difficoltà della vita. Sono sbarcato con abbigliamento estivo, perché da noi è sempre estate; era il 25 di gennaio e faceva un freddo incredibile. Avevo l’indirizzo di mio cugino, in piazza Foroni, Barriera di Milano. Sono però arrivato in un momento un po’ difficile, lui stesso era senza lavoro. Mi ha presentato alcuni amici che facevano i “vu’ cumprà” (è lui stesso ad usare questo termine, ndr.) in via Garibaldi e, per non stare senza far nulla, mi sono unito a loro. È stato durissimo, prima di tutto perché   non eravamo in regola, e andavamo in una via in cui è vietato, ma tu devi mangiare, quindi ci vai lo stesso. Passano i vigili e devi scappare con la tua roba, altrimenti la sequestrano, ma devi cominciare da capo perché devi vivere. Tutto ciò che guadagni se ne va per l’affitto, che dividi con altri tre o quattro, ma sono sempre almeno 150 euro, e la spesa, 25/30 euro alla settimana. Lavori giusto per sopravvivere. Ho fatto questa vita per un anno; sono andato anche al mare, nelle Marche, da luglio a settembre. Lì era anche peggio: ti alzi presto, vai a dormire tardi, tutto il giorno in piedi a camminare lungo la spiaggia. Disturbi la gente, però tu devi vendere perché se no non vivi, e quindi devi insistere: ‘Compri, prego, prego…’ Qualcuno era anche un po’ energico, reagiva allontanandoti con la forza. No, mi son detto, così non va bene. Ho detto agli amici: ‘Ragazzi, questa è l’ultima volta che vengo a fare questo lavoro’. C’era anche il problema dei furti: si avvicinavano in tre o quattro, si provavano occhiali o borsette, ti distraevano e si mettevano in tasca qualcosa. Non me ne accorgevo subito, ma poi la roba mi mancava. I ragazzi lo fanno anche solo per divertimento, per una sfida. Anche per questo volevo smettere, al più presto”.

Tornato a Torino hai ricominciato lo stesso giro…

Sì, ho ricominciato. La voglia di mollare tutto e tornare a casa era forte; ma la mia famiglia, soprattutto mia madre, mi ha detto di resistere, di andare avanti, perché tornare a casa a mani vuote sarebbe stata una sconfitta non soltanto mia, ma per l’intera famiglia. Un giorno, un mio connazionale mi ha chiamato per caricare dell’eco-pelle su un furgone. Conoscevo bene la pelle, a Dakar la lavoravo. Il proprietario mi ha notato perché ha visto che sapevo come maneggiarla, e inoltre ero robusto e lavoravo molto, e mi ha quindi offerto di andare con lui, ogni tanto, a dargli una mano. Ho iniziato così a lavorare per il suo magazzino: consegne per i banchi di diversi mercati, nella zona nord di Torino. È stata l’occasione per iniziare una vita normale, e abbandonare finalmente la cerchia dei vu’ cumprà. Per tre anni ho lavorato per 10/12 ore al giorno, ma mi è servito per trovare una stabilità”.

Finalmente in regola.

No, invece: tutto in nero, non avevo neppure il permesso di soggiorno. Nel 2007 sono partito per l’Italia con un visto per trenta giorni: scaduto quello, non ero più in regola, ero clandestino”.

Clandestino per quattro anni!?

Di più: ho iniziato nel 2012 la pratica per il permesso di soggiorno, arrivato soltanto nel 2014. Sono stato irregolare per cinque anni: è la vita che fa la maggior parte di noi. I più fortunati sono quelli che hanno già una famiglia e hanno beneficiato del ricongiungimento; per gli altri, vita da irregolari. Lo scorso settembre ho ottenuto il permesso di soggiorno permanente. Per la cittadinanza ci vogliono dieci anni, purtroppo devo ‘scontare’ il periodo di clandestinità: sono residente soltanto dal 2014, devo perciò attendere il 2024 per richiederla”.

Qual è stata la svolta verso il lavoro attuale?

Il lavoro in magazzino è terminato con il fallimento del proprietario, nel 2011. Ero di nuovo senza soldi e senza lavoro; avevo inviato tutti i miei risparmi alla mia famiglia, in Senegal, e ho ricominciato a vivere alla giornata. Però pianificando una vita diversa. Ho cercato “calzolai” su Internet, ho preparato dei lavori in pelle, tovagliette o cose del genere, e ho iniziato a girare con questi campioni chiedendo se avevano bisogno di un ragazzo, dicendo che sapevo fare diverse cose. Dopo tanti rifiuti, uno di loro mi ha detto che mi avrebbe passato del lavoro extra, lasciando a me il relativo compenso. Così ho cominciato a fare il mio lavoro, facendo esperienza anche con altri calzolai: mi affidavano lavori che loro non erano in grado di fare”.

Cioè, tu eri più qualificato di loro?

Esatto (sorride). È una bella soddisfazione. Sono riuscito a crearmi una rete lavorativa perché molti di loro facevano solo riparazioni, mentre io ero in grado di fabbricare scarpe, anche su misura, e borse, di cambiare cerniere e altro, lavori che magari i calzolai sanno fare, ma a cui rinunciano perché richiedono troppo tempo. A me il tempo non mancava, e mi sono detto che era meglio guadagnare poco, ma farlo onestamente. Anche se dovevo lavorare 10/12 ore al giorno”.

È stato detto che gli Africani hanno un rapporto diverso con il lavoro a seconda del Paese di provenienza. Per esempio, i ragazzi che chiedono soldi sulla porta dei supermercati sono in prevalenza nigeriani. È vero?

È vero. Il motivo è che lì sono le donne a lavorare, e vengono sfruttate dagli uomini. Le donne di strada sono in maggioranza nigeriane. È brutto dirlo, ma è così. E quelli davanti ai supermercati sono in prevalenza nigeriani. È brutto perché nei supermercati ci andiamo anche noi, e vederli così non fa piacere. La gente ha cominciato ad andare via dal Senegal subito dopo l’indipendenza, 50 anni fa. Per vivere lì devi essere un artigiano, o un agricoltore, o un pescatore. Il territorio è ricco di risorse, ma vengono sfruttate da pochi ricchi, il popolo veniva tenuto nell’ignoranza, soprattutto i lavoratori delle campagne: la verità è venuta fuori solo dopo diverse manifestazioni di piazza. Però è tutta gente abituata a lavorare, e quando vengono in Europa lavorano sul serio. È difficile che tu veda un senegalese che chiede l’elemosina: piuttosto, come ho fatto io, va a vendere illegalmente, ma il denaro vogliono guadagnarselo”.

Torniamo a noi: come hai trovato questo locale, per aprire la tua attività?

Nel 2014, appena ricevuto il permesso di soggiorno, sono andato in Senegal, perché nel frattempo era mancato mio padre. Non ci siamo visti per sette anni e quando è mancato io non c’ero”.

Tu gli devi molto: è stato lui ad insegnarti il mestiere con cui oggi ti guadagni da vivere…

“Sì, era bravissimo (Modou lo dice con un’espressione di orgoglio ed affetto). Era felice che io facessi questo lavoro, perché a noi piace: oltre che darci da vivere, ci diverte, lo facciamo con passione. Passati due mesi a Dakar, sono tornato e ho cominciato a lavorare come apprendista. Dopo un anno, il titolare mi ha proposto un part time, per pagarmi di meno, allora ho deciso di cercare un locale per mettermi in proprio. L’agenzia immobiliare mi ha proposto questo: la zona mi piaceva, con banche, ospedali, uffici, poca concorrenza. Ho iniziato nel gennaio del 2016. Questo era un parrucchiere, prima, quindi non c’era nulla; alcuni colleghi mi hanno venduto i macchinari, che ho pagato un po’ alla volta. Non avevo presse, né cucitrici, gran parte del lavoro lo facevo a mano. Avevo solo questo banco da lavoro, che ha più di vent’anni, ma è ancora in ottimo stato: con questo riesco a fare molte cose. Ho una buona clientela, che sta crescendo perché molti calzolai della zona stanno chiudendo, qualcuno anzi manda i suoi vecchi clienti da me, quindi lavoro ce n’è”.

Hai ancora problemi di razzismo?

Sì, devo ammettere che il razzismo c’è. Ci vuole tanta pazienza, cerchi di non fare caso a certe cose, e vai avanti”.

La tua famiglia? Tua madre è ancora in vita? Quanti siete?

Sì, mia madre c’è ancora, si chiama Mariem, è il nome che ho scelto per questo negozio. Siamo nove fratelli, sei maschi e tre femmine. Uno è già qui con me; mi piacerebbe farli venire tutti, ma non è ancora possibile, per il momento. La vita è molto cara, a Dakar: prodotti come la carne o la Coca Cola costano più di qua, e non ce la fai, se non hai un buon lavoro, o se non lavori nel Governo”.

Qual è il profumo che ti ricorda Dakar?

Mi viene in mente l’odore del karité, che da noi viene usato per diverse cose, per il corpo, per i capelli. Oggi le donne hanno altre esigenze, ma una volta il karité era usato tantissimo. Si ottiene dai noccioli di una pianta, poi bolliti e trasformati in una pasta da cui si ottiene il burro di karité. C’è un’azienda italiana che lo acquista dal Senegal per farne cosmetici”.

Hai un sogno?

Il mio sogno era di avere un’attività in proprio, e finalmente ci sono riuscito. Ma quando realizzi un sogno, subito ne nasce un altro: il mio, adesso, è quello di mettere in piedi una piccola azienda per la produzione di calzature e la fornitura di cinture con fondine per le forze dell’ordine. Vorrei poter assumere dei dipendenti e magari riuscire anche a realizzare una grande azienda in Senegal”.

E quindi torneresti in Senegal?

Non è detto. Potrei anche gestirla da qui. Potrei affidarla a fratelli ed amici, che così non avrebbero bisogno di lasciare il Senegal per vivere. Se qualcuno inizierà a portare qualche attività produttiva nel Paese, i giovani non si sentiranno costretti a salire su un barcone e a rischiare di morire per riuscire a venire in Europa, senza la minima certezza di una vita normale. Sono tanti, qui, quelli che non fanno niente, che non riescono neppure a mangiare! In Senegal ci sono pochissime aziende che producono, anche la pesca non rende più come una volta, c’è sempre meno pesce, e in più ci sono problemi sempre maggiori di acque territoriali: i pescherecci devono spingersi fino in Mauritania e anche lì ci vogliono permessi, che costano”.

Molti Italiani si chiedono per quale motivo rischiare la vita per venire qui, dove non c’è lavoro. È difficile mettersi nei panni di chi lascia il proprio Paese per sognare una vita dignitosa. Il problema sono proprio i sogni, mi pare…

Già, i sogni e la visione del mondo. Se in Senegal vedi nei film bei palazzi, macchinoni, persone ricche, tanto lavoro, pensi di partire e di poter riuscire a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Da qui, viceversa, del Senegal si vedono povertà, criminalità, malattie, e non si vedono i ricchi, che da lì non si spostano perché stanno bene. Ma tanti ragazzi poveri che non riescono a lavorare, neanche un poco, pensano ‘Piuttosto muoio in mare, ma non resto qui a fare niente’!

Quindi sono consapevoli di poter morire?

Sì, certo. Chi va in mare è triste, sa che è molto pericoloso, tutti lo sanno bene: sanno che anche il viaggio a piedi nel deserto, fino in Libia, è molto pericoloso. Ho visto partire tanti ragazzi, prima di me: molti prendevano il mare perché costava meno, ma io mi sono rifiutato. Salire in duecento su un barcone che non può portarne più di trenta, porta ad un rischio di affondare enorme. Sono morti tantissimi ragazzi, in questo modo”.

Forse i ragazzi che qui fanno la fame si vergognano di dire la verità alle proprie famiglie. È più facile dire “sto bene”. Tu hai avuto questo problema?

Sapevano solo in parte. Se dici la verità, li fai star male inutilmente, perché non potrebbero comunque venire ad aiutarti. Un visto costa dai cinque ai diecimila euro: devi pagare per dimostrare che hai un lavoro e un conto in banca. Io ho pagato perché ero un artigiano, e mi hanno dato il visto perché io tornassi: è un modo per cercare di non perdere persone che possono produrre. Concedere il visto a chi mostra di non aver alcuna intenzione di ritornare significa perderlo definitivamente”.

Oggi sei sposato.

Sì, ci siamo sposati nel gennaio 2017, un anno dopo aver aperto il negozio, e in ottobre sono diventato papà. Saliou è nato in Senegal: quando sono tornato qui ho avviato subito la pratica per il ricongiungimento familiare, ma sulla richiesta c’era soltanto il nome di mia moglie Ndjoba, quindi nostro figlio è rimasto a Dakar, con la nonna. Qui abbiamo la nostra bimba di quindici mesi, che si chiama Mariam, come mia madre. Un nome che suona bene, e poi io voglio molto bene a mia madre. La piccola è nata qui, al Sant’Anna: è torinese (ride). Cammina e parla, è una gran chiacchierona”.

In Europa la parola “Dakar” viene associata alla corsa Parigi-Dakar. Come la vivevate, voi senegalesi?

Per noi ragazzini era una festa, andavamo sempre a vedere quelle macchine che avevano attraversato il deserto. Alcuni regalavano l’auto ad amici del posto, o la vendevano a poco prezzo, per non dover fare il viaggio di ritorno. Non ricordo proteste da parte dei senegalesi: da noi è molto importante la ‘teranga’. È un termine difficilmente traducibile, nella lingua wolof significa accoglienza, ospitalità, ma in realtà è qualcosa di più: significa considerare l’ospite come un valore che arricchisce. C’è sempre, nei senegalesi, la curiosità di conoscere chi viene da un altro Paese, parla un’altra lingua ed è diverso da loro. Una parola preziosa, per noi, perché rappresenta il buono. tutte le cose buone sono ‘teranga’: se offri qualcosa di buono, tu hai fatto una ‘teranga’. Alla fine, posso dire che è stata dura, molto, anche perché non parlavo italiano e neppure francese, parlavo solo il Wolof, perché dovevo lavorare e mi ero fermato alle scuole elementari, non ho potuto studiare il francese. Eravamo poveri, e mio padre faceva fatica a mantenerci tutti, perciò…

Come hai imparato l’italiano?

Mio cugino aveva sempre la televisione accesa: ascoltavo, mi segnavo parole di cui non conoscevo il significato. Nell’estate del 2007 mi sono iscritto ad una scuola serale, all’Istituto Parini, e già in sei mesi ero migliorato. Con gli amici parlavo italiano, ma a loro non piaceva molto: ‘Noi siamo senegalesi, devi parlare senegalese’. Ma nella mia testa, io mi dicevo che se volevo restare qui e lavorare qui, dovevo imparare bene la lingua, è importante. Ho trovato gente che mi ha aiutato, mi correggeva dove sbagliavo, mi ha insegnato parole nuove, e questo aiuta”.

Insomma, per realizzare i tuoi sogni hai pagato, in tutti i sensi. Prima il visto, poi hai pagato con le sofferenze dei primi anni, altri soldi per il permesso di soggiorno…

Un giorno, durante una retata, volevano mettermi insieme ad alcuni ragazzi che conoscevo e che sapevo che spacciavano. Alla fine è arrivato un superiore, che mi ha chiesto chiarimenti sulla mia abitazione: quando ha capito che non c’entravo nulla, mi ha detto di cambiare, di andare ad abitare altrove perché quella era una brutta zona. Adesso abito qui accanto”.

Riteniamo giusto concludere con le sue stesse parole:

Vedi, se hai avuto una buona educazione cerchi sempre di scegliere la strada più onesta e dignitosa, per fare qualcosa di buono. All’inizio ti dicono che spacciare è facile e rende di più, ma tu non lo fai, perché ti hanno insegnato a non fare nulla che possa far del male ad altri”.

                                                                       Marco Gambella

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