Ao Tea Roa, la chiamarono i Maori

Ao Tea Roa, la chiamarono i Maori
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“La mia gente è venuta da Pora-Pora in grandi canoe. Vennero con tre grandi imbarcazioni che avevano nome Tainvi, Tokomaru e Arawa, orientandosi sul volo degli uccelli, sulla direzione di onde e correnti e, di notte, guardando le stelle. Andavano alla ricerca di un’isola che il grande stregone, Maui, pescò dal profondo del mare per il grande Kupe, discendente della nobile stirpe di Raiatea. Quando l’acqua divenne più fredda, e così l’aria, il capo di quella flottiglia, Tamatea, dal corpo tutto tatuato, scorse all’orizzonte una lunga nuvola luminosa. Il grande stregone sacerdote, Notoroirangi, incitò i rematori che raddoppiarono gli sforzi. Gli uomini alle vele raccolsero tutto il vento favorevole e le imbarcazioni si spinsero in avanti velocemente, tra le capriole dei delfini. Sul finir del giorno, la nuvola prendeva forma e consistenza, era Ao-Tea-Roa, quella che voi oggi chiamate Nuova Zelanda, sbarcarono sull’isola e combatterono contro gli uccelli giganti che abitavano le sue spiagge, i moa. Così i Maori restarono per sempre sull’isola”.

Con queste parole Hugo Pratt, il celebre romanziere, autore e disegnatore di Corto Maltese, racconta la nascita della Nuova Zelanda per bocca del maori Tarao, tra i principali protagonisti di uno dei suoi racconti più celebri, “La ballata del mare salato”. Ao Tea Roa (“il paese della lunga nuvola bianca”) divenne così il territorio di questa popolazione di guerrieri. Questo succedeva intorno all’anno 1350. In quel periodo l’Europa, devastata dalla peste, era alle prese con la “cattività avignonese”, lo scisma d’Occidente: la sede papale era diventata Avignone e si affrontavano papi ed antipapi. Dante era morto da pochi anni, mentre in estremo Oriente il Giappone era dilaniato da una sanguinosa guerra civile.

Nei  kainga, i villaggi maori, la società era organizzata in caste: capi, sacerdoti, nobili, guerrieri e schiavi; i tatuaggi, (i moko, riconosciuti come forma d’arte e patrimonio culturale soltanto nel 1999), ne indicavano il rango. Più erano estesi, più influente era la persona. Lo spirito guerriero si concretizzava in forme di cannibalismo sui vinti (ne bevevano il sangue) e in sacrifici umani, spirito che permise ai Maori di conservare per secoli il dominio sull’arcipelago. Se ne accorse nel 1642 l’olandese Abel Tasman, il primo occidentale che raggiunse Ao-Tea-Roa.

La due navi, Heemskerk e Zeehan, furono circondate dai Maori che suonavano dentro specie di corni. Interpretando il suono come un benvenuto, Tasman rispose, senza sapere di aver accettato una dichiarazione di guerra. Quando i locali attaccarono una scialuppa uccidendone l’equipaggio, gli Olandesi, spaventati, salparono e non misero più piede su quelle isole, divulgando in Occidente la fama della ferocia dei loro abitanti. Nonostante tutto, furono proprio gli Olandesi a dare all’arcipelago il nome “Nieuw Zeeland”.

Trascorse oltre un secolo, perciò, prima di un nuovo contatto con una nave europea. Nel 1769 a sbarcare fu il grande navigatore inglese James Cook, esploratore e cartografo per conto della Royal Society di Londra, durante il suo viaggio in direzione di Tahiti. Incontrando la popolazione locale, rimase colpito dalla struttura complessa della società. Fu solo con l’arrivo degli Inglesi che questa gente iniziò a chiamare se stessa Maori, che significa “normale”, mentre i bianchi erano Pakeha, “stranieri”, vocaboli tuttora utilizzati. Anche i Francesi tentarono di colonizzare le isole, ma quando, nel 1772, i Maori massacrarono l’intero equipaggio di una loro nave, rinunciarono a qualsiasi pretesa.

Nel 1814 arrivarono i primi missionari, che introdussero il cristianesimo tentando di eliminare le abitudini più cruente dei locali, come il cannibalismo. Arrivarono poi le prime baleniere inglesi, americane e francesi, che cominciarono a sfruttare il nuovo territorio. Arrivarono le armi da fuoco, le malattie dei bianchi, lo sfruttamento delle foreste, la prostituzione delle donne agli stranieri. Gli Inglesi, che nel frattempo avevano creato la Compagnia della Nuova Zelanda, tentarono di regolamentare questo sfruttamento selvaggio; nel 1840 il capitano William Hobson firmava con i locali il Trattato di Waitangi, che assegnava di fatto la sovranità agli Inglesi. Al popolo Maori il Trattato lasciava la proprietà delle terre ed accordava la protezione da parte della potenza inglese. La conseguenza fu una trentina d’anni di guerre tra Maori e Pakeha, fino al 1872. Il Trattato è stato ripreso negli ultimi decenni: dal 1975 il Treaty of Waitangi Act raccoglie tutte le istanze della popolazione a tutela del taonga, la cultura e lo spirito dei Maori. Oggi è la stessa autorità governativa, attraverso il Waitangi Tribunal e la Maori Land Court, che si occupa del controllo delle norme stabilite da questo Trattato. La disputa più recente riguarda la proprietà delle onde radio, in quanto i Maori sostengono che l’aria faccia parte del taonga, e di conseguenza anche le onde che si propagano nell’etere rientrano nel diritto di proprietà della popolazione maori. La questione non è di poco conto, perché lo sfruttamento della diffusione delle onde radio potrebbe prevedere un rientro economico, visto che le frequenze sono state messe all’asta dal governo per una somma di 300 milioni di dollari.

Alla fine del XIX secolo, grazie anche alla scoperta dell’oro, il “Paese della grande nuvola bianca” vide una forte ascesa economica, accompagnata da una delle legislazioni sociali più avanzate. Fu per esempio il primo Paese al mondo a riconoscere il diritto di voto alle donne (nel 1893), ad adottare una legge fondiaria che consentiva l’accesso dei lavoratori al possesso della terra e ad istituire una pensione di vecchiaia. Oggi la Nuova Zelanda ha un tasso di scolarizzazione altissimo, possiede un sistema di sicurezza sociale tra i più progrediti e la polizia gira disarmata. Un esempio del welfare neozelandese ci arriva da ciò che è successo ad Albert Buitenhuis, cuoco sudafricano, alla sua richiesta di prolungamento del permesso di soggiorno. Il cuoco si è visto rifiutare la domanda proprio per il suo eccessivo peso, visto che 130 kg significano un probabile maggior costo per il Servizio Sanitario Nazionale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, gli abitanti delle isole del Pacifico sono fra i più obesi del mondo, quindi l’Ufficio Immigrazione ha dovuto mettere in atto le istruzioni ricevute dal Governo per tentare di ridurre il tasso di obesità della popolazione, soprattutto delle persone provenienti da altri paesi.

La lingua dei Maori era quasi scomparsa, ma oggi si insegna di nuovo nelle scuole, a fianco di quella inglese. Si stima che i Maori in Nuova Zelanda siano oggi poco meno di 700.000. Soltanto nel 2005 il Maori Party ha preso parte alle elezioni, riuscendo a portare 4 propri deputati nel governo. Come spesso succede, sono i giovani ad esibire l’orgoglio della propria gente nella maniera più violenta. La Nuova Zelanda, in effetti, pur essendo un paese efficiente dal punto di vista sociale, ha il triste primato del maggior numero di gang giovanili in rapporto alla popolazione: nel 2010 se ne contavano almeno 70 ufficiali, su quattro milioni di abitanti, soprattutto nell’Isola del Nord, a maggioranza Maori. La cittadina di Wairoa, vicina all’elegante Napier, ha visto nel corso del 2010 ben 5 omicidi legati ad una rissa. Fra gli 8 mila abitanti si conta un’ottantina di giovani appartenenti ai Mongrel Mob o ai Black Power, a fronte dei 18 poliziotti cittadini. Insomma, è evidente che i problemi esistano anche per uno stato ben organizzato come la Nuova Zelanda.

 

Ad ogni modo, i “kiwi” sono gente tosta. Era nato a Tuakau, cittadina poco a sud di Auckland, Edmund Hillary, il primo conquistatore della vetta dell’Everest insieme allo sherpa Tenzing Norgay. Celebre in tutto il mondo è la squadra di rugby neozelandese, gli “All Blacks”, che ha preso dalla tradizione maori l’altrettanto celebre haka, la danza (erroneamente considerata una danza di guerra) che precede ogni match della fortissima e temuta compagine. Altrettanto note sono le imbarcazioni da regata che hanno saputo dominare nella Coppa America di vela.

Pur rimanendo nell’ambito del Commonwealth, la Nuova Zelanda è indipendente dal 1931, con uno Statuto ratificato soltanto nel 1947, anche se si considerava una ex-colonia già dalla fine dell’Ottocento. Oggi, secondo i dati OCSE, Ao-Tea-Roa è ai primi posti per capacità di attrarre giovani studiosi da tutto il mondo. Più di un terzo dei dottorandi nelle università del Paese proviene dall’estero (la media negli atenei europei è del 18% e in Italia è del 9%). I cervelli in arrivo da fuori sono visti come una preziosa opportunità, per un Paese a bassa densità di popolazione e con scarsa presenza di industrie.

Tra le principali attività economiche dei Maori vi sono infatti, ancora oggi, la lavorazione ad intaglio del legno e la produzione di tessuti particolari, sviluppata fin da quando furono costretti ad adattarsi al clima più rigido delle nuove “terre della lunga nuvola bianca”: cominciarono a filare una specie di lino del luogo, che utilizzano per ogni necessità, perfino per le vele delle loro “waka taua”. Un altro aspetto interessante della cultura Maori è la lavorazione della giada, proveniente dall’Isola del Sud, che per tale produzione è infatti chiamata Te Wai Pounamu, “l’acqua della giada”. I “tiki”, i caratteristici ciondoli di giada, secondo tradizione contengono il “mana” degli avi, la loro energia e il loro spirito.

Una curiosità per i torinesi. Nella città sabauda si tiene ogni due anni la manifestazione “Terra Madre”, che raduna la popolazione rurale di ogni parte del mondo, allo scopo di salvaguardare la cultura contadina delle varie regioni della terra. Heeni Kiri Hoterene, una contadina maori, fu la madrina della cerimonia di apertura dell’edizione del 2008, in rappresentanza della propria etnia. In quel periodo era incinta, e proprio in onore del grande evento diede alla figlia, nata nel 2009, il nome di Terra Madre.

Milford Sound, Nuova Zelanda

Che la Terra dei Maori sia diversa da tutte le altre, è dimostrato soprattutto dall’aspetto straordinario della flora e della fauna. Zealandia era il nome del continente, esteso circa il doppio dell’Australia, staccatosi dall’Antartide circa 100 milioni di anni fa e successivamente dall’Australia stessa. La Nuova Zelanda altro non è che la parte emersa di questa terra, inabissatasi circa 50 milioni di anni fa, e ciò ha dato al Paese una delle sue principali caratteristiche, l’esistenza di specie animali e vegetali uniche al mondo. Il 90% della fauna neozelandese non si trova in nessuno altro luogo del mondo, anche perché l’isolamento geologico, durato milioni di anni, ha reso impossibile l’arrivo di nuove specie. Gli unici mammiferi presenti sulle isole prima dell’arrivo dell’uomo erano foche, delfini ed alcune specie di pipistrelli. Questo ha creato un’evoluzione unica, cioè un ecosistema privo di predatori (non esistono neanche serpenti!), nel quale molte specie di uccelli hanno smesso di volare, non avendone la necessità.

L’elenco delle specie rare è lunghissimo. Si va dai capodogli ai delfini di Hector, i delfini più piccoli al mondo, alla tuatara, rettile preistorico, al wetas, cavalletta più grossa di un topo, fino alle lumache giganti, grandi quanto una mano, anch’esse in via di estinzione. E le vespe locali, che prosperano a volte in sciami numerosi e nidi molto pericolosi. Poi gli uccelli, primo fra tutti il kiwi, notturno e schivo, grosso più o meno quanto un pollo, che è talmente noto da dare per estensione il soprannome ai Neozelandesi. Poi il weka, una specie di gallina, e il kakapo, pappagallo notturno. Il nome di quest’ultimo è Maori e significa appunto “pappagallo della notte”. È l’unico pappagallo al mondo che non sia in grado di volare perché troppo pesante (può raggiungere i 7 kg), ed uno degli uccelli più longevi, con una vita che può superare i 60 anni. Inoltre si possono ricordare il cormorano, il “pinguino occhio giallo”, l’albatro, lo shearwater, lo stilt, il petrel, l’airone testa bianca, e così via.

Molte di queste specie animali corrono un serio rischio di estinzione. Tra i maggiori imputati, i gatti. La questione sembra leggera ma non lo è affatto, per i locali. I Neozelandesi amano moltissimo i gatti, si parla di una popolazione felina di circa 1 milione e 400 mila individui, a fronte di poco più di 4 milioni e 300 mila abitanti del Paese. Inoltre, gli animali sono abitualmente lasciati liberi di muoversi nel giardino che ogni abitazione del Paese possiede, cosa che permette ai gatti di cacciare indisturbati. Una delle proposte, infatti, è quella di tenere i gatti in casa durante il giorno, “come fanno gli Europei”.

Nel gennaio 2013, l’illustre economista ed ambientalista Gareth Morgan, autore di libri e filantropo, ha dato vita ad una campagna anti-micio attraverso il sito “Cats to go” (i gatti se ne devono andare), nel quale vengono ribadite le teorie esposte in precedenza, integrandole con immagini, descrivendo i gatti come serial killer e indicandoli come la specie più sadica esistente in natura, con frasi del tipo “la piccola palla di pelo che possedete è un assassino”. Oltre ai consigli che venivano forniti da Zealandia, Morgan suggerisce di dotarli di un collare con un campanellino o di un microchip e, ovviamente, di sterilizzarli.

Inutile dire che anche questo sito ha ricevuto moltissime critiche. Bob Kerridge, amministratore delegato della SCPA, Society for the Prevention of Cruelty to Animals, parla di teoria “strampalata e offensiva”: “La gente considera il gatto un membro della famiglia. Perciò, francamente, Morgan sta cercando di privare tutti noi della libertà civile di scegliere chi vogliamo in casa nostra”.

A ben guardare nella storia della Nuova Zelanda, furono proprio i Maori a causare i primi danni. Non riuscendo, a causa del clima rigido, a coltivare il loro alimento principale, le kumara, specie di patate dolci, i guerrieri Maori non poterono fare altro che dare la caccia alla ricchissima fauna delle isole, tra i quali i giganteschi uccelli moa citati da Pratt, simili agli struzzi ed altrettanto incapaci di volare, causandone l’estinzione. Introdussero inoltre specie fino ad allora estranee, come i cani o le stesse patate, che in seguito riuscirono a coltivare, insieme a nuove piante resistenti al clima più freddo. Con l’arrivo dell’uomo e di altri mammiferi predatori, molte specie locali di uccelli hanno cominciato  a sparire, proprio perché, non volando, sono facili prede. I Maori hanno portato con sé il cane e, involontariamente, i topi. Gli Inglesi hanno portato il gatto, i maiali, i cinghiali e gli allevamenti di animali da pelliccia o da alimentazione: opossum, ermellini, conigli, furetti.

 

Proprio  in Nuova Zelanda, nel 1979, si era studiato l’ecosistema di una piccola isola, dalla quale i gatti erano scomparsi completamente. È stato riscontrato che in pochi anni il numero dei topi era quadruplicato, fatto che a sua volta ha prodotto effetti devastanti per l’ambiente, come la diminuzione degli uccelli, in questo caso dei gabbiani, le cui uova sono un pasto ghiottissimo per i roditori. Se dunque i circa 220 milioni di gatti domestici viventi di colpo sparissero, sarebbero dolori per  cigni, anatre e gabbiani, e probabilmente aumenterebbero i predatori che, come il gatto, si nutrono di piccoli roditori, tipo volpi e lupi. Un mondo senza gatti, oltre che più povero dal punto di vista umano, sarebbe dunque un luogo inquietante, in cui i topi spadroneggiano inseguiti soltanto da grossi carnivori selvatici. Forse quindi la loro sparizione, sia pure favorevole per una ripresa demografica di molte specie avicole autoctone, non sarebbe che una nuova “bomba ad orologeria ecologica”, pronta a causare a catena altri effetti deleteri.

Ma questa è un’altra storia.

 

 

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