Ci sono date che rimangono impresse nello scorrere della Storia, come una chiave di volta che regge la struttura di tutti gli avvenimenti di quel periodo e di quelli futuri, fino ad arrivare ai nostri giorni. Quegli anni-cardine, dopo i quali “niente è più come prima”. Il 1492 è uno di quelli.
E’ nel 1492 che Cristoforo Colombo intraprese il viaggio che lo portò a sbarcare per primo su quello che si pensava fosse un nuovo continente, anche se sono molti gli indizi che fanno ritenere che altri vi fossero arrivati molto tempo prima. Dalla Groenlandia di Erik il Rosso, infatti (colonizzata intorno all’anno 1000), non è difficile immaginare che navi vichinghe si fossero spinte fin sul continente americano. Qualche migliaio di chilometri più a sud, invece, l’impero degli Incas era il quel periodo alla sua massima espansione.
Il 9 aprile del 1492 si spegneva Lorenzo de’ Medici, colui che più di tutti diede l’impulso al Rinascimento italiano, sviluppatosi grazie al lungo periodo di equilibrio succeduto alla firma, nel 1454, della Pace di Lodi, tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia, che portò di fatto ad una tregua tra tutti i bellicosi stati in cui era suddivisa la penisola italiana.
In Asia, dopo la morte dell’ultimo sovrano, Tamerlano, l’impero mongolo era in progressiva disgregazione, sotto i colpi dei cosacchi e dei cinesi che stavano recuperando i territori conquistati due secoli prima da Gengis Khan.
In Spagna, nel 1492, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia concludevano la “Reconquista” con l’espulsione dalla penisola iberica degli ultimi Arabi e, dopo sei mesi, di tutti gli ebrei. Terminava così il periodo di dominio arabo, iniziato nel 711 ad opera della dinastia degli Omayyadi, durato quindi quasi 800 anni. Nel corso dei secoli un eccezionale sincretismo tra le diverse culture di arabi, cristiani ed ebrei aveva portato in Europa vaste conoscenze di letteratura, filosofia, scienza, astronomia, agricoltura. Gli Arabi introdussero colture sconosciute (o dimenticate, come l’ulivo), fondamenti di matematica (algebra e trigonometria), il sistema decimale (con il concetto di zero, proveniente dall’India). L’introduzione della bussola è attribuita agli Arabi. Averroé, oltre a numerosi testi di astronomia, religione e medicina, ci ha trasmesso tutte le opere di Aristotele, che in Europa erano state quasi completamente dimenticate. Testi di medici come Avicenna costituirono fondamenti della medicina europea per molto tempo. Nelle università (quella di Cordoba potrebbe essere considerata il più antico esempio in Europa di università moderna) lo studio delle discipline umanistiche e scientifiche era alimentato dalle conoscenze delle antiche culture persiana, indiana, greca ed ebraica.
Il 2 gennaio 1492 tutto questo venne spazzato via. Possiamo anche chiederci come sarebbe ora il mondo se le cose fossero andate diversamente. E’ un fatto, però, che nel 1492 prende forma e si stabilizza l’attuale aspetto culturale e religioso: gli arabi sulla sponda meridionale del Mediterraneo e i cristiani su quella settentrionale. La penisola arabica, che aveva visto la nascita della religione islamica e l’inizio dell’espansione musulmana, conservava il ruolo di centralità religiosa, con le moschee a La Mecca e a Medina. Ma il resto della penisola vedeva una progressiva decadenza, dovuta anche all’espansione coloniale delle grandi potenze europee. Subì prima la dominazione turca e poi l’influenza inglese. Fu proprio con la collaborazione britannica, nella persona del colonnello Lawrence, che nel XX secolo il sovrano Abd al-Aziz Sa’ud riuscì prima ad unificare il territorio ed in seguito ad ottenere l’indipendenza e fondare il Regno dell’Arabia Saudita, il 18 settembre del 1932.
La costituzione non esiste: è il Corano
Nel XVIII secolo il teologo Muhammad ibn Abd al-Wahab aveva predicato nella penisola una forma di Islam sunnita, il wahabismo, a forte connotazione ortodossa e fondamentalista, derivante dalla dottrina sunnita. Questo culto si proponeva di riportare l’Islam alla purezza originaria, abolendo l’adorazione di santi e martiri. A questo movimento appartenevano i sovrani sauditi, ed è questo il culto che venne adottato come religione ufficiale. Non esiste una costituzione, in quanto la “costituzione” era, ed è tuttora, il Corano. Wahabita era Osama Bin Laden e la dottrina wahabita è quella che muove i ribelli ceceni del Caucaso e la setta Boko Haram in Nigeria. Wahabite sono anche le milizie di Al Qaeda che erano riuscite ad ottenere il controllo della parte settentrionale del Mali, grazie anche all’alleanza con i Tuareg.
A pochi anni dall’indipendenza del Regno Saudita, nel 1938 venne scoperto il petrolio, che fece del regno wahabita la grande potenza economica che conosciamo. Si stima che il Paese possegga il 25% delle riserve mondiali di greggio. Forte del proprio immenso potere economico, e quale più stretto alleato arabo degli Stati Uniti, il governo saudita si fa rispettare nella diplomazia internazionale: recentemente si è permesso uno schiaffo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, rifiutando l’assegnazione di uno dei cinque seggi non permanenti, di durata biennale. Il regno wahabita ha espresso in questo modo il suo profondo scontento per le scelte dell’amministrazione americana in Medio Oriente, in particolare per la rinuncia all’intervento militare in Siria in cambio del disarmo chimico. Riad non aveva gradito neanche il sostegno militare USA ai Fratelli Musulmani in Egitto e soprattutto guarda tuttora con sospetto il riavvicinamento all’Iran sul nucleare.
La legge coranica è applicata rigorosamente dai sauditi, tanto da imporre il rispetto del Ramadan su tutto il territorio, quindi anche agli stranieri, pena l’espulsione. Ne è un ulteriore esempio il divieto di festeggiare il capodanno occidentale. È stata proibita la vendita di rose rosse, orsetti di peluche, e qualsiasi altro regalo legato alla ricorrenza. Sembra, però, che le vendite di tali prodotti siano comunque aumentate in quel periodo, quindi il divieto potrebbe non essere rispettato da tutti… Stessi problemi recentemente con la ricorrenza di San Valentino, proibita perché “non musulmana”.
In Arabia Saudita non è possibile alcun culto pubblico per i cristiani, che vengono sottoposti a violenze se “sorpresi” a pregare. La vita è dura non soltanto per i cristiani, ma anche per gli sciiti e gli ebrei, così come per i blogger portatori di idee pseudo-rivoluzionarie. Dal 2013 nel Paese sembra si stia intensificando una forte repressione contro il web, denunciata anche dall’organizzazione Human Rights Watch. Un blogger, Raif Badawi, è stato recentemente condannato a sei anni di prigione e 600 frustate per aver offeso l’Islam sul suo sito. Secondo HRW, “l’Arabia Saudita spicca per i suoi elevati livelli di repressione e il suo fallimento nel mantenere le promesse fatte al Consiglio per i Diritti Umani. […] In particolare, dovrebbe riformare un sistema giudiziario penale arbitrario, abolire il sistema di controllo degli uomini sulle donne, ed eliminare gli aspetti discriminatori del sistema di aiuti per i lavoratori stranieri, che li rende vulnerabili agli abusi, come il lavoro forzato”.
La violenza sulle donne
La condizione femminile nell’Arabia Saudita è, per usare un eufemismo, molto difficile. C’è stata una forte repressione delle libertà in generale, non soltanto per le donne, in seguito al sanguinoso attacco alla Mecca, costato circa 400 vittime, nell’autunno del 1979, che gli storici amano definire la prima azione del nascente movimento di Al Qaeda. Il governo saudita, dopo i fatti, ha rafforzato il controllo sul rispetto della legge coranica. La donna ha un ruolo subordinato all’uomo, secondo la rigorosa tradizione del culto wahabita. Un recente studio assegna all’Arabia Saudita la maggiore percentuale di matrimoni poligami, il 19%.
l’Arabia Saudita è molto criticata per la mancanza di una legislazione che protegga il sesso debole e il personale domestico dagli abusi. La cultura tradizionale impedisce alle donne di denunciare tali abusi per timore di una condanna sociale. Khaled al-Fakher, segretario generale dell’ente governativo Società Nazionale per i Diritti Umani, afferma che “le donne pensano a quello che la comunità potrebbe dire di loro se denunciassero gli abusi subiti”. Si pensi per esempio ad una moglie che ha subito violenza, la quale per sporgere denuncia doveva essere accompagnata alla polizia dal marito che l’aveva appena maltrattata.
Nell’agosto del 2013 è stata finalmente approvata una legge che condanna ufficialmente qualsiasi forma di violenza domestica e di abuso sulle donne. Tale miracolo è stato reso possibile anche da una campagna di sensibilizzazione nazionale senza precedenti, che ha attirato anche l’attenzione dei media internazionali. Nell’immagine, il volto di una donna che indossa il tradizionale niqab nero, dietro al quale si vedono soltanto i due occhi, di cui uno visibilmente tumefatto. Lo sguardo diretto verso chi guarda. La didascalia recita: «Alcune cose non possono essere coperte. Combattiamo insieme la violenza sulle donne».
La campagna, che è stata promossa dalla Fondazione King Khalid, sottolinea che “il fenomeno delle donne maltrattate in Arabia Saudita è molto maggiore di quanto appaia”, incoraggia i sauditi a denunciare i casi di violenza domestica e fornisce protezione legale a donne e bambini vittime di violenze, oltre ad “un aiuto sociale, psicologico e medico”. Secondo la nuova norma, i colpevoli di abusi psicologici o fisici rischiano una pena che va da un mese fino ad un anno di carcere ed una multa fino a 50.000 riyal (circa 10.000 euro).
Le condizioni di vita sono addirittura peggiori per le moltissime donne straniere, circa un milione e mezzo, impiegate nei lavori domestici. Indonesiane, cingalesi, filippine, indiane ed etiopi vengono sfruttate e sottoposte ad ogni tipo di abuso, dal lavoro non retribuito alla violenza fisica, insomma condizioni simili alla schiavitù. Denunce e ribellioni vengono punite con il carcere o la pena di morte. Il Committee on Oversaes Workers Affair denuncia in uno studio che il 70% dei lavoratori filippini in Arabia Saudita subisce violenze fisiche e psicologiche. Il sito Asianews.it ha pubblicato la storia di Lorena, “una giovane filippina di 27 anni giunta in Arabia Saudita all’inizio del 2010 per lavorare come domestica presso una famiglia di Jeddah. La donna racconta che le violenze hanno avuto inizio pochi giorni dopo il suo arrivo all’aeroporto. In nove mesi di impiego Lorena è stata violentata diverse volte. La ragazza racconta che oltre alla violenza sessuale ha subito ogni genere di maltrattamenti: “Lavoravo anche 20 ore al giorno senza sosta. La moglie del mio principale mi insultava e mi picchiava perché non capivo l’arabo e non eseguivo alla lettera i suoi ordini. Il mio pranzo erano un pezzo di pane e ciò che avanzava dai piatti degli altri famigliari“. Dopo mesi di soprusi il 30 dicembre 2010 la giovane riesce a mettersi in contatto con il personale del Philippines Overseas Labour Office (Polo), che segnala il caso alla polizia; le autorità arrestano il datore di lavoro a seguito di lunghe indagini. A tutt’oggi la ragazza è ospitata dal Polo e dovrà restare in Arabia Saudita finché non verrà concluso il processo contro il suo aguzzino”.
Le donne sono soggette all’autorità maschile dei Wali
Tutti i media indicano come punto di svolta ciò che successe in una scuola femminile, sempre alla Mecca, l’11 marzo 2002. Durante un furioso incendio, gli agenti della polizia religiosa avevano impedito ai vigili del fuoco (maschi) di entrare nella scuola e avevano bloccato alcune studentesse, che cercavano di fuggire, perché non velate. Le vittime furono quindici. E’ notizia recentissima (lo scorso 27 febbraio) la morte della ventisettenne Amna Bawazeer, studentessa di sociologia che, avuto un malore all’interno della sua facoltà “King Saud” di Riyadh, non ha potuto ricevere soccorsi tempestivi, perché le studentesse presenti non potevano avere contatti con i soccorritori (maschi).
Gli agenti della polizia religiosa, la Mutaween, o Mutaw’a, o più sovente Mutawa (la denominazione corretta è “Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”), hanno il compito di assicurare l’applicazione rigorosa della visione wahabita del Corano. Controllano tutto e tutti, verificano che i negozi siano chiusi durante la preghiera, fermano le coppie non sposate, le donne non completamente coperte e si assicurano che non guidino.
Nei negozi sono presenti muri divisori che separano donne e uomini, allo scopo di “proteggere” commesse e clienti donne dagli sguardi maschili. Applicata nei negozi in cui sono impiegati commessi di sesso diverso, la misura prevede barriere alte almeno un metro e sessanta. Le donne possono lavorare solamente in luoghi di sole donne oppure nella vendita di biancheria intima e cosmetici, settori di lavoro approvati nel giugno 2011, quando il governo impose che i commessi (in gran parte uomini di origine asiatica) fossero sostituiti con donne saudite. Il provvedimento ha creato 44mila nuovi posti di lavoro per le saudite (solo il 7% della popolazione occupata nel privato è composta da donne), nonostante la disapprovazione del nuovo capo della Mutawa, Abdul Aziz al Sheikh, che ha avvertito i negozianti che assumere le donne è un “crimine vietato dalla legge islamica”. E’ stata una decisione sollecitata dalle stesse saudite, che manifestavano il proprio disagio nell’acquistare biancheria intima e cosmetici di fronte agli uomini. Ma l’arrivo di tante donne in luoghi di lavoro misti, come i centri commerciali, aveva sollevato problemi diversi, non ultimi i molti casi di molestie.
Per le saudite l’elenco dei divieti è lungo. Proibito lavorare come colf, hostess o ingegneri, oltre all’interdizione da una serie di lavori usuranti, quali minatore, addetto alle fognature o facchino. Alcuni degli ultimi episodi che hanno fatto il giro del mondo suscitano il sorriso ai nostri occhi di occidentali. Prima l’immagine di due agenti che vietano ad alcune donne di utilizzare le altalene di un parco, addirittura con il plauso di alcuni presenti, perché questo avrebbe potuto spingere gli uomini a molestarle. Poi la chiusura di un ristorante a Gedda, sul Mar Rosso, per non aver garantito la separazione tra uomini e donne nelle sale, in cui le TV satellitari trasmettevano immagini “oscene”. E aveva fatto molto discutere l’opinione pubblica svedese, un paio di anni fa, la decisione del Gruppo Ikea di cancellare le immagini di donne dalle edizioni del proprio catalogo in Arabia Saudita. Forti le accuse di servilismo, perfino dal Ministero dell’Economia, visto che l’80% della clientela Ikea nel regno saudita è femminile.
La nuova legge non soltanto concede a chi denuncia un abuso il diritto di rimanere anonimo, ma la possibilità alle donne ora per segnalare le violenze non hanno più bisogno dell’approvazione del Wali (tutore maschio, generalmente il marito, il padre o il fratello). Le organizzazioni internazionali per i diritti umani sperano che questa legge possa essere soltanto il primo passo verso un reale cambiamento delle normative vigenti. Attualmente infatti, per le donne occorre ancora l’approvazione dei guardiani maschi per svolgere le più comuni azioni civili, come fare una domanda di lavoro, subire un intervento chirurgico o anche soltanto guidare un’automobile. Non è consentito loro nemmeno prendere un ascensore insieme agli uomini. Le saudite non possono viaggiare all’estero da sole, devono sempre essere accompagnate da un wali. Una misura di controllo imposta nel 2012 prevede che venga inviato un sms di avviso alle famiglie delle donne che non presentano la prevista autorizzazione al viaggio, firmata da un wali. La norma, aspramente criticata da più parti, è stata momentaneamente sospesa il 15 gennaio 2014. Come in molti paesi musulmani, inoltre, è molto diffusa la pratica delle spose-bambine. Esiste un limite minimo di 15 anni che non sempre viene rispettato.
No woman, no drive
L’interesse mondiale si è recentemente concentrato sul divieto imposto alle donne saudite di guidare l’auto. Un interesse suscitato dalla protesta delle saudite, che hanno sfidato il divieto. Diverse organizzazioni femministe hanno chiamato le donne alla disobbedienza civile, invitandole a filmarsi mentre guidano, per ottenere il riconoscimento del diritto di guidare veicoli a motore. La legge non lo vieta esplicitamente, ma per guidare le donne devono richiedere un apposito permesso, che non viene rilasciato quasi mai.
Il primo episodio avvenne nella città di al-Khobar, sul Golfo Persico, nel maggio del 2011: protagonista la 32enne Manal al-Sharif, che il giorno successivo venne arrestata e trattenuta in carcere per una settimana. La ricercatrice egiziana, di padre saudita, Mai Yamani ha commentato la vicenda accostandola al celebre gesto di Rosa Parks, che nel 1955, a Montgomery, in Alabama, rifiutandosi di rispettare la legge locale cedendo il proprio posto su un autobus, contribuì in modo determinante a scatenare il movimento per i diritti civili dei neri americani.
Manal ha ricevuto nel 2012 il premio “Vaclav Havel” per il dissenso creativo, da parte del Freedom Forum di Oslo. A chi sostiene che dare la patente alle donne le sottopone al rischio di contatti con estranei (meccanici, per esempio), lei risponde che dare loro la possibilità di guidare e muoversi autonomamente darebbe invece loro maggiore sicurezza, ricordando che non tutte le famiglie possono permettersi lo stipendio di un autista. Inoltre sono stati molti i casi di donne aggredite proprio dallo stesso autista. Divertente è il video realizzato dal comico e cantante saudita Hisham Fageeh, che ha messo sul web un’ironica parodia della canzone di Bob Marley “No woman, no cry”, intitolandola “No woman, no drive”.
La protesta delle donne ha una data precisa. Il 26 ottobre 2013 hanno sfidato l’implacabile polizia religiosa guidando l’auto e filmandosi a vicenda, postando i video sui social network, e richiamando l’attenzione generale. Lo sceicco Saleh al Luhaidan, uno dei 21 membri del Consiglio superiore degli Ulema, la massima autorità religiosa della monarchia sunnita, prova a impedire il dilagare dell’ondata, citando improbabili elementi scientifici: «Quando una donna guida un’automobile, ad eccezione di una reale necessità, questo potrebbe avere un impatto fisiologico negativo, visto che studi medici fisiologici e funzionali dimostrano che colpisce automaticamente le ovaie e solleva il bacino. Le donne dovrebbero mettere la ragione prima del cuore, delle emozioni e delle passioni». Incredibile. Il re Abd Allah è in pessime condizioni di salute, la sua morte è stata annunciata in più occasioni: il monarca sembra non riuscire più ad illuminare il suo Regno, e le sue idee hanno sempre meno peso rispetto a quelle dello sceicco Luhaidan che proprio grazie alla sua strenua opposizione all’espansione dei diritti delle donne ha conquistato la leadership dei conservatori in Arabia Saudita, che costituiscono la maggioranza.
Blog e cinema
La cultura e l’istruzione femminile, comunque, sono molto diffuse nel regno, e il carattere conservatore della società saudita non ha impedito che le donne diventassero chirurghi, designer, docenti, giornaliste, donne d’affari.
La blogger saudita Eman al-Nafjan gestisce a Riyadh un blog di cultura e società, il Saudiwoman’s Weblog (http://saudiwoman.me/). Sul blog ha pubblicato i nomi degli uomini che sono in carcere per aver aiutato le donne. Come per esempio questo giornalista, Tariq al Mubarak, che ha sostenuto la campagna “Oct26th Women Driving”, ed è stato arrestato il giorno dopo. Eman al Nafjan ha citato un’espressione saudita che descrive le contraddizioni del suo Paese. I sauditi parlano spesso di “Saudi exceptionality”, straordinarietà saudita. Le posizioni degli uomini, come si può immaginare, sono molto diverse fra loro. La maggior parte, comunque, non approva il senso di superiorità degli occidentali. Una delle affermazioni più comuni è “il fatto che mia moglie e mia figlia abbiano il capo coperto non significa che siano stupide”.
Le donne saudite non possono guidare l’auto, però possono andare in bicicletta. La “conquista” è stata ufficializzata nell’aprile 2013, a condizioni ben precise: possono andare in bicicletta soltanto per svago, quindi nei parchi o sul lungomare, indossando sempre l’abaya e sempre in compagnia di un uomo, per poter essere soccorse in caso di un incidente. Qualcuno collega questa apertura delle autorità saudite al successo internazionale del film “La bicicletta verde”, opera prima della coraggiosa regista saudita Haifaa al-Mansour, che narra la vicenda di una bambina di Ryad di undici anni, che sognava di possedere una bicicletta.
Anche per il cinema ci sono seri problemi. Nel Regno non esistono sale cinematografiche, e i sauditi si recano nei cinema oltre confine, in Bahrein o negli Emirati, oppure scaricano i film dal web. Il primo, debole tentativo di legittimazione è stato il Saudi Film Festival di Dammam, sulla costa orientale. Si parla oggi di proiezioni clandestine, con spettatori convocati con appuntamenti sui social network. Sta ottenendo un buon successo un regista emergente, Feras Bugnah, che nel 2011 è stato arrestato per aver messo su YouTube un documentario sulla povertà a Ryad, e nel 2013, sempre su YouTube, ha pubblicato una serie di video nei quali lui stesso impersona personaggi fuori dal comune: un mendicante, un cieco, uno spazzino, un disabile. Il programma, dal titolo “Youmak Maai” (“La tua giornata con me”) si propone di sensibilizzare i sauditi sulle diversità.
Piccoli grandi segnali di cambiamento
Le cose cominciavano già a cambiare dal 2011, quando i movimenti nati dopo la “Rivolta dei gelsomini” tunisina infiammavano le nazioni arabe. Soltanto nel 2011, infatti, re Abdullah, in un discorso del 25 settembre, quattro giorni prima delle elezioni municipali (le uniche consultazioni elettorali esistenti nel Paese), ha concesso alle donne l’estensione del diritto di voto, che le donne saudite potranno esercitare per la prima volta nel 2015. E’ stata la pressione della campagna “Baladi” (“il mio paese”) organizzata da diverse attiviste, tra cui Nailah Attar, che sull’onda delle “primavere arabe” ha spinto le donne saudite a recarsi a migliaia negli uffici di registrazione per le consultazioni municipali. Esse avranno anche la possibilità di candidarsi ma, naturalmente, senza mostrare il proprio volto sui manifesti.
All’inizio del 2013, tra forti polemiche da parte dei conservatori, alle donne è stato concesso di entrare a far parte del Consiglio consultivo della Shura (lett. “assemblea”), i cui 150 membri vengono eletti ogni quattro anni, riservando loro una percentuale del 20% dei posti, come promesso dal sovrano saudita due anni prima. Trenta, quindi, sono oggi le donne nel Consiglio, anche se per partecipare devono usare ingressi separati, comunicare esclusivamente via audio o video e avvalersi di staff esclusivamente femminili. Insomma, l’ennesima contraddizione.
Ma i piccoli passi avanti dell’Arabia Saudita verso le donne sono stati di certo favoriti anche dalle pressioni della parte femminile della famiglia reale, in particolare la figlia più giovane, Adila, che qualche anno fa fece arrabbiare i fondamentalisti, rinunciando pubblicamente al niqab, per indossare un semplice foulard. Un ruolo fondamentale potrebbero averlo svolto alcune ricche e potenti donne saudite, quali Khlood al-Dukheil, imprenditrice, o Lubna Olayan, a capo di una delle più forti banche del Paese. Va detto che nelle aziende saudite sono moltissime le cariche ricoperte da cosiddette token women, cioè figure femminili a cui sono stati assegnati incarichi presso aziende saldamente in mani maschili, non perché lo meritassero, ma proprio per sbandierare una presunta “apertura” ai diritti femminili. Sicuramente una svolta decisiva è arrivata nel febbraio del 2009, quando Re Abdullah fece entrare per la prima volta nel Governo una donna, Noura al-Fayez, una quarantenne con studi negli Stati Uniti, con il compito di occuparsi dell’istruzione ed in modo particolare, ovviamente, dell’istruzione femminile.
Un altro significativo passo per l’emancipazione femminile è stata l’apertura del primo studio legale totalmente femminile. Lo gestisce Bayan Alzahran, la prima donna ad ottenere la qualifica di avvocato in Arabia Saudita, la quale ha precisato che il suo studio offrirà il sostegno legale non soltanto a donne, ma anche a uomini. Anche quella di avvocato è una delle professioni aperte da poco alle donne, soltanto nel febbraio del 2011 il Ministero della Giustizia saudita ha concesso alle donne avvocato di poter sostenere cause connesse al diritto di famiglia. Le reazioni all’iniziativa sono state positive, l’avvocato Alzahran dice che ha ricevuto sul suo account twitter centinaia di messaggi di congratulazioni.
Notizia recentissima è la nomina di Somayya Jabarti a direttrice del quotidiano in lingua inglese Saudi Gazette, dopo tredici anni di lavoro a fianco del precedente direttore. Mai, prima d’ora, era stato affidato ad una donna, in questo Paese, un incarico di tale responsabilità
Le donne e lo sport
Ma l’avvocato Alzahran e la giornalista Jabarti non sono le uniche in
fatto di primati che, ne siamo sicuri, si moltiplicheranno nei prossimi anni: nel maggio 2013 una venticinquenne di Jeddah, Raha Moharrak, è la prima donna saudita a raggiungere la vetta dell’Everest, in una spedizione in cui erano presenti, anch’essi per la prima volta per i loro paesi, un ragazzo del Qatar ed un palestinese. “Non mi interessa essere stata la prima”, scrive sul diario della spedizione “ciò che conta è che io possa ispirare qualcun’altra ad essere la seconda”.
Uno degli sport più popolari e praticati in Arabia Saudita è il basket. La federazione del regno ha puntato sugli esperti professionisti americani dell’NBA per la formazione dei propri allenatori, ma la cosa sorprendente è che il basket sembra essere proprio lo sport più praticato dalle ragazze. La ragione principale sta nel fatto che le scuole non permettono alle ragazze la pratica sportiva: nelle scuole pubbliche è (ovviamente) vietato. Le studentesse possono praticarla in quelle private, che però non sono dotate di campi di calcio, ma di numerose palestre per pallavolo e basket.
Nel Paese è forte la polemica per mettere fine a questo assurdo divieto, visti anche i problemi di obesità e osteoporosi che affliggono le ragazze saudite. Per il momento i passi avanti sono timidi ma incoraggianti. Soltanto nel giugno del 2013 è stato aperto nella città di al-Khobar (quella del primo video di una donna al volante) un centro sportivo femminile che permette alle donne di praticare karate, yoga e programmi di fitness, sotto le direttive di insegnanti (donne, ovvio!) formatesi all’estero. Anche se sono molti a sapere che i “centri benessere” femminili, numerosi in tutto il Paese, sono ormai delle vere e proprie palestre per sole donne.
Alle Olimpiadi di Londra l’Arabia Saudita, per la prima volta nella sua storia, ha iscritto due ragazze: una judoka, Wojdan Shaherkani, e una mezzofondista, Sarah Attar, che durante la sua partecipazione alle batterie degli 800m, col velo in testa ed una divisa verde con maniche lunghe, ha ricevuto una vera e propria ovazione da parte del pubblico dell’Olympic Stadium. La Shaherkani, invece, ha dovuto sostenere fortissime polemiche perché avrebbe dovuto gareggiare senza l’hijab, secondo le regole del CIO. Alla fine si è arrivati al compromesso di coprirle il capo con un particolare hijab usato dalle donne per tutti gli sport. E’ stata eliminata al primo turno, ma la soddisfazione per aver partecipato, per lei è stata grande.
Anche l’amazzone ventenne Dalma Rushdi Malhas, nata in Ohio da genitori palestinesi e naturalizzata saudita, avrebbe dovuto partecipare, ma è stata esclusa per l’infortunio del proprio cavallo. Un altro caso di sospetta discriminazione.
Il Gran Muftì Abd al-Aziz al-Shaikh, già citato capo della Mutawa, nel 2012 aveva affermato, a proposito delle Olimpiadi: «Le donne dovrebbero stare in casa. Non c’è alcuna necessità che gareggino in attività sportive, anzi gli sforzi richiesti dallo sport provocano danni alla salute delle giovani vergini».
Un po’ di poesia
La storia è vecchia di quattro anni, si svolge nell’aprile del 2010, quando nella popolarissima trasmissione televisiva degli Emirati, “Sha’ir al-Milyun” (“poeta da un milione”), si presenta la saudita Hissa Hilal. Scrittrice e redattrice a distanza della sezione poesia del giornale londinese in lingua araba “al-Hayat”, ha dimostrato nella poesia in stile nabati (forma lirica beduina, tradizionale del Golfo Persico) una maestria tale da potersi permettere affermazioni scomode, denunciando gli
estremismi e le sentenze religiose. Indossava abaya e niqab, e con voce tremante ma decisa spargeva i suoi versi sulla platea, soprattutto televisiva, nella quale sapeva molti sauditi: “Ho visto il male negli occhi delle fatwe, in un tempo in cui ciò che è ammesso viene confuso e distorto per poterlo vietare”. Le minacce di morte non hanno tardato a raggiungerla, ma Hissa ha proseguito fino all’ultima serata, diventando una star televisiva. Ha ottenuto un ottimo terzo posto, ma la cosa più importante è stata dimostrare che una donna, anche se non viene da una famiglia importante, può farcela, e vedere che “la gente nelle strade è contenta che io abbia parlato così apertamente”.
Quanto abbiamo detto finora impone, a questo punto, una riflessione.
C’è molta propaganda anti-araba nei commenti sulla carenza dei diritti civili in Arabia Saudita. Noi guardiamo la società del Regno con gli occhi della cultura occidentale. Molte donne saudite, grazie anche alla crescente globalizzazione, guardano ad occidente con il desiderio di una maggiore libertà, però sono convinto che moltissime donne arabe non farebbero cambio con le occidentali. Questione di cultura. In quella saudita, le donne non hanno certamente la libertà di cui godono le occidentali, ma sono allo stesso tempo più protette. La vita sociale del regno wahabita si svolge con queste regole e come abbiamo visto i cambiamenti sono piccoli e lenti. Ma come abbiamo già detto, le limitazioni di movimento non hanno impedito alle saudite di conquistare posizioni anche di eccellenza, così come siamo sicuri non impedisca loro di vivere la quotidianità in modo sereno.
La società saudita, quindi, è in lenta ma costante trasformazione. Il progresso economico, ormai legato anche alla partecipazione femminile al lavoro, dovrà essere accompagnato anche da un’estesa riforma sociale, che permetta la completa accettazione di presenze femminili anche nella vita pubblica. In un rapporto del 2012 Tony Klug, consigliere speciale per il Medio Oriente dell’Oxford Research Group, sostiene che le ultime aperture siano soltanto di facciata. In realtà il governo saudita si preoccupa di reprimere il dissenso interno, cresciuto in seguito alle “Primavere” succedutesi negli altri paesi dell’area, come dimostrerebbe anche l’appoggio delle truppe saudite al Bahrein per schiacciare la rivolta della sua popolazione.
La maggiore preoccupazione del Regno è però la crescente influenza iraniana nella regione delle grandi monarchie sunnite. Lo dimostra la vitalità, nelle proteste di questi ultimi anni, delle città saudite delle regioni orientali, nelle quali sono presenti le basi militari americane, ma in cui, allo stesso tempo, vive una minoranza sciita sempre più influente.
Staremo a vedere.
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