Mamma Maggy oggi ha 56 anni.
Ha salvato migliaia di bambini del Burundi, creando la Maison Shalom, dal giorno in cui, nell’ottobre del 1993, ha visto massacrare davanti ai suoi occhi 72 persone a colpi di machete.
Da allora Marguerite Barankitse si è dimostrata instancabile nell’accoglienza dei piccoli sfuggiti all’odio e all’orrore delle carneficine nel suo paese. Le sono stati assegnati diversi premi internazionali, che lei ha saputo trasformare in aiuti concreti alle sue azioni di sostegno ai bambini.
Ha girato per il mondo in cerca di fondi (è stata anche in Italia). La sua storia è narrata in un libro, “Madre di diecimila figli”, pubblicato da Piemme.
Nel 2010 ha inaugurato un grande ospedale pediatrico nei pressi della capitale, Bujumbura. Con la sua tenacia nel maggio dello stesso anno ha convinto il presidente Nkurunziza a firmare un decreto che liberava tutti i minori di 13 anni, in tutto 451, in prigione per piccoli furti, e ad avviare un programma di recupero e di scolarizzazione.
Ne parliamo anche noi perché oggi più che mai sono le donne, non solo nel Burundi ma in tutta l’Africa, che possono dare la spinta concreta verso un futuro di progresso per tutto il continente, verso quell’uscita dalla filosofia di aiuti internazionali che molto spesso vanno ad arricchire le tasche di pochi potenti senza scrupoli. E da fare ce n’è davvero molto.
Dunque, il Burundi, dicevamo.
Il 18 giugno del 2006, a Dar es Salaam in Tanzania, viene firmato il cessate il fuoco tra i ribelli hutu e le forze governative del Burundi. Finalmente viene ufficializzato un periodo di pace avviato nel 1998, quando cominciarono le trattative per gli “Accordi di Arusha”, conclusi il 28 agosto 2000, sotto il patrocinio di Nelson Mandela.
La strada per la pace sarà ancora lunga. Gli scontri si susseguiranno.
Ma andiamo con ordine e facciamo un passo indietro. La storia delle origini del Burundi è strettamente legata a quella del Rwanda e possiamo iniziare a raccontarla a partire da un migliaio di anni fa, quando sul territorio a nord-est del lago Tanganica, alla originaria popolazione Batwa, pigmei cacciatori di altezza media 1,55, si aggiungono i Bahutu, di lingua Bantu, provenienti dal Camerun, che conoscevano l’agricoltura e l’uso del ferro. Di aspetto tarchiato, di altezza media di 1,66, si cibavano prevalentemente di cereali e fagioli.
Tra il 1200 e il 1300 invece arrivano dal nord, dall’alta valle del Nilo, i nomadi Batutsi, pastori e guerrieri, di pelle molto più chiara degli Hutu, si stabiliscono nel paese pacificamente, importando le loro tradizioni, costumi e strutture, imponendosi come classe dominante ed eliminando la conflittualità esistente tra i capi Hutu.
“I Twa, “sottouomini” con i quali era esclusa qualsiasi integrazione sociale, costituivano una esigua minoranza e godevano del totale dispregio delle altre etnie, aumentata dalla usanza di cibarsi di qualsiasi tipo di carne, ad esclusione dello scimpanzé e del gorilla, mentre Hutu e Tutsi mangiavano solo carne di bovini. Gli Hutu in particolare li stimavano meno dei cani, non rifiutavano loro l’acqua, ma si affrettavano a rompere il bicchiere subito dopo. Vasai, cantanti, indovini, stregoni, incaricati dei lavori più umili, nei loro confronti esisteva un inspiegabile “rispetto” provocato dal timore che la loro uccisione avrebbe provocato le ire degli spiriti maligni”. (Da http: www.icsm.it)
I Twa erano considerati l’ultimo gradino della scala sociale, mentre gli Hutu formavano la grande massa contadina. I Tutsi, guerrieri e pure alti, come tutte le popolazioni dell’Alto Nilo, presto formano élites e assumono privilegi e posti di comando. “Le loro usanze, in gran parte di origine religiosa, li obbligavano a conservare il latte in recipienti in legno, mai in ferro, che andavano puliti con le urine e gli escrementi dei bovini, a non cuocerlo perché l’operazione sarebbe stata letale per le mucche, a usare burro rancido come unguento, a vietare alle donne di occuparsi del bestiame. Guerrieri e pastori con grandi mandrie di bovini dalle caratteristiche lunghe corna, un proverbio recitava: “nulla è al di sopra della vacca”, spregiatori di ogni lavoro manuale, si nutrivano prevalentemente del sangue e del latte dei bovini. Scherzosamente si sosteneva che le donne tutsi non sapevano cucinare perché i loro uomini non amavano mangiare. Alti, slanciati, con lineamenti aquilini, di bell’aspetto, secondo Giorgio Gualco: “una delle genti più belle e aristocratiche dell’Africa”, veniva loro riconosciuto una vivace intelligenza e capacità organizzative. Costituivano la maggior parte della nobiltà, dei quadri dell’esercito, dei funzionari governativi e degli allevatori ed a loro le autorità coloniali tedesche e belghe affidavano gli impieghi e gli incarichi governativi più gratificanti, mentre gli Hutu venivano discriminati, ingenerando in loro il timore che anche dopo l’indipendenza le gerarchie e i privilegi non sarebbero cambiati”. (Da http: www.icsm.it)
Secondo una leggenda fu infatti il mwami (re) tutsi Ntare Rushatsi ad unificare il Paese, nel XVII secolo. Il primo regno di cui si ha una documentazione certa è stato però quello di Ntare Rugamba, nella prima metà del 1800.
Pur essendo i Tutsi al vertice del potere, il grado di cooperazione tra le etnie era però molto buono.
Il mwami Mwezu Gisebo regnò dal 1857 al 1906. Sotto il suo governo, il paese resistette ai tentativi di invasione del vicino Rwanda e ai traffici senza scrupoli dei mercanti nyamwezi della Tanzania.
E questa era la situazione che trovarono i Tedeschi.
Nel 1884 iniziava la cosiddetta Conferenza di Berlino, che si proponeva di definire le sfere di influenza delle nazioni europee nei vari territori africani.
Uno dei punti centrali era la spartizione del territorio formato dal bacino del fiume Congo, che vide il successo del sovrano belga Leopoldo II, il quale ottenne che il territorio in questione venisse affidato non al Belgio ma alla sua persona.
I disaccordi tra Francia e Inghilterra furono appianati soltanto marginalmente dalla conferenza, che si limitò a stabilire accordi commerciali e umanitari, e definire il possesso dei territori costieri. I deboli accordi della Conferenza di Berlino, in quella che venne chiamata “Corsa all’Africa” risultarono poi determinanti nei decenni successivi, nelle vicende che portarono allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
E la Germania, quindi?
Ottenne la gestione del territorio del regno di Ruanda-Urundi e del Tanganica, che ancora non aveva inglobato Zanzibar, a formare l’attuale Tanzania.
Dopo la guerra, il Burundi passò al Belgio, che nel 1922 ottenne il mandato ufficiale dalla Società delle Nazioni, l’attuale ONU, fino all’indipendenza, nel 1962.
E qui inizia il disastro. Perché, appena ne ottengono l’amministrazione, i Belgi fanno una cosa saggia: un censimento. Ma nel fare questo, commettono un errore fatale. Sotto la foto della persona, nella carta d’identità, impongono la voce “etnia”, con quattro possibilità: Hutu, Tutsi, Twa o Naturalisé.
La differenziazione in etnie rimane molto forte durante il periodo di colonizzazione e si esaspera dopo la conquista dell’indipendenza. I Tutsi mantengono la leadership e di fatto estromettono tutti gli hutu dai posti di comando. I rapporti tra le due etnie erano caratterizzati da un sentimento di superiorità naturale dei Tutsi al quale si accompagnava una sudditanza psicologica, un complesso di inferiorità degli Hutu, il tutto complicato da una situazione di sfruttamento della minoranza sulla maggioranza in una situazione politico-economica estremamente complicata che creava una miscela pronta ad esplodere. “Schematizzando la tripartizione razziale si può sostenere che i Tutsi costituivano l’aristocrazia del paese, gli Hutu il popolo e i Twa i paria. L’istituzione che meglio evidenziava la natura dei rapporti tra i Tutsi e gli Hutu era “l’ubuhake”, un contratto feudale che si compendiava nell’usufrutto e non nella proprietà del bestiame concesso ai contadini hutu e che si trasmetteva ai figli. In cambio, questi si obbligavano a una serie di servizi come la cura delle piantagioni, il mantenimento a turno della mandria del padrone, nel seguirlo nei suoi viaggi, in uno stato di profonda subordinazione. La discriminazione si estendeva anche alla scuola. Nel 1922 le scuole elementari avevano 367 allievi tutti tutsi, nel 1954 in un istituto superiore di Butare vi erano 63 Tutsi e 3 Hutu” (Da http: www.icsm.it)
Nel 1962 il paese diventa indipendente. Nel Burundi, che fino agli anni sessanta era chiamato Urundi, convivono le tre etnie. Gli Hutu alla fine degli anni cinquanta sono circa l’85%, i Tutsi il 14 e i Twa l’1%. Le tre etnie convivevano da secoli sullo stesso territorio e avevano in comune la lingua, il kirundi.
Nel 1965 gli Hutu tentano un primo colpo di stato, ma le cose non vanno bene e per rappresaglia il governo elimina dai 2500 ai 5000 Hutu.
Altro tentativo nel 1972, nella regione costiera del lago, ma stavolta il prezzo è enorme. I Tutsi iniziano un “genocidio selettivo”, eliminando gli Hutu “istruiti”, quelli delle università, delle accademie militari, persino quelli che si trovano all’estero vengono richiamati e fatti sparire. E’ stato calcolato che nell’anno siano scomparsi dagli 80.000 ai 200.000 Hutu. Tutto questo però non ha risonanza internazionale, perché è un massacro “discreto”, sistematico, poco visibile.
Ma è davvero difficile condensare in poche righe quanto avvenuto nel Burundi nei vent’anni precedenti gli accordi di pace.
Nel 1976 la prima riforma agraria, che però ha poca efficacia, con il persistere delle tensioni etniche.
Nel 1981 c’è un primo tentativo di Costituzione, con nuove elezioni.
Nel 1987 Pierre Buyoya mette a segno il suo primo colpo di stato, incruento.
Nel 1992 una nuova Costituzione multipartitica e nuove elezioni nel 1993, che vedono prevalere l’hutu Ndadaye, ucciso l’anno successivo in un ennesimo tentativo di colpo di stato. Seguono scontri che provocano più di 100.000 vittime.
Sostituito con un altro hutu, Ntaryamira, ucciso il 6 aprile 1994 insieme al presidente ruandese Habyarimana, in un attentato all’aereo sul quale viaggiavano. Pur non precipitando nel caos della guerra civile, come invece accadde in Ruanda, si verifica un’escalation di violenza sulla popolazione civile, che induce Unione Europea e Stati Uniti ad interrompere gli aiuti economici al governo.
Quando nel 1996 Buyoya porta a termine un nuovo colpo di stato, con il dichiarato impegno di combattere una “guerra totale contro la ribellione armata”, le violenze si intensificano, soprattutto ai danni degli Hutu, e provocano migliaia di vittime fra il 1996 e il 1997. Alcuni stati della regione impongono sanzioni economiche al paese, e intanto i massacri non si fermano. Amnesty International riferisce che risulta molto difficile distinguere le responsabilità del governo da quelle dei gruppi ribelli.
Soltanto a partire dall’estate del 1997 si avvia tra grandi difficoltà il processo di pace e, dopo il parziale ripristino della Costituzione del 1992 da parte del presidente Buyoya, prendono il via i difficili negoziati di Arusha.
Difficili, molto. Infatti gli scontri non si fermano.
Nel “massacro di Itaba” del 2002, ad esempio, l’ennesimo eccidio di un numero imprecisato di civili, colpevoli, si ritiene, di aver offerto aiuto ed ospitalità alle truppe dei ribelli hutu. Vengono uccisi, secondo i portavoce dell’esercito, 183 persone, 1250 secondo fonti del Partito del Popolo.
E’ del 2004 l’ultimo spargimento di sangue. Il FNL massacra 160 rifugiati tutsi nei campi profughi di Gatumba, presso il confine con il Congo.
Il 2005 vede lo sforzo di tutta la popolazione, con una serie di consultazioni elettorali che comincia in febbraio, con il referendum con il quale il 90% dei Burundesi ratifica la nuova Costituzione, e culmina in agosto con l’elezione a Presidente di Pierre Nkurunziza, che gli accordi di Arusha avevano già designato Presidente ad interim.
Come detto, nel 2006 la firma della pace definitiva.
Nel 2007 il Burundi entra a far parte dell’EAC, la Comunità dell’Africa Orientale con Kenya, Tanzania, Uganda e Ruanda, ma risulta tuttora essere uno dei Paesi più poveri del mondo.
Una stima del 2010 ne evidenzia l’altissimo tasso di corruzione e lo colloca tra i dieci Paesi più corrotti al mondo.
Tuttavia vi si respira un’aria di ottimismo, la produzione di caffè regge e buone speranze arrivano dalla possibilità di sfruttamento delle risorse minerarie quali petrolio, nichel e rame. Inoltre ha aumentato l’invio di proprie forze militari in diverse operazioni di peacekeeping sotto la bandiera dell’Unione Africana, per esempio in Somalia.
Il progetto di integrazione dell’EAC è molto ambizioso; dopo aver abolito le imposte doganali e introdotto la libera circolazione di merci, capitali e persone tra i Paesi membri, si propone una moneta unica e la trasformazione in Federazione, con un solo governo centrale, entro il 2015.
Intanto, dopo la fine della guerra, si sono moltiplicati i progetti di solidarietà della comunità internazionale.
A Kigutu, per esempio, nella regione sulla costa del lago Tanganica. Due uomini, un burundese laureato ad Harvard, Deo Niyizonkiza, e Dziwe Ntaba, studente del Massachusetts originario del Malawi, fondano una clinica con l’aiuto dei capitali di un filantropo americano, la Village health works, che ben presto diventa un punto di riferimento per la povera gente del luogo, creando cooperative agricole e di allevatori, e rendendosi molto attiva anche nella lotta al potere politico locale. Combatte anche contro le molte superstizioni, come ad esempio il taglio dell’ugola, praticato dai guaritori del luogo ed ormai consolidato nell’uso popolare.
Sempre a proposito di superstizioni, possiamo citare il pregiudizio contro gli albini, che in questa zona dell’Africa autorizza chiunque ad uccidere la vittime di questa antica leggenda, che li vede portatori di cattivi spiriti, ad emarginarli da scuola e lavoro, a torturarli, a vendere parti dei loro corpi. Contro tanto pregiudizio si sono mosse ormai molte associazioni; nel 2009 anche la nota Rama Yade, personaggio politico francese di origine senegalese, ha sostenuto una campagna in favore degli albini.
Ancora sui pregiudizi.
Chi nasce con una menomazione fisica, oppure ha un trauma da incidente, da queste parti viene abbandonato al suo destino, perché così comanda la natura. In questo Paese dove, a causa di quarant’anni di conflitti interetnici, la sanità era tutta da inventare, due medici ortopedici italiani, Vincenzo Monti e Francesco Falez creano a Bubanza, nel nord del Burundi, un ospedale specializzato in chirurgia ortopedica.
“Ho visto mamme abbandonare i propri figli perché nati con un handicap fisico” racconta Falez. Questa struttura restituisce la speranza a tutti coloro che la società ha abbandonato a sé stessi, senza alcuna forma di cura.
In questo quadro nasce la FCCIB / CFCIB (a seconda della pronuncia anglofona o francofona), la Camera Federale di Commercio e Industria del Burundi.
La camera federale è un’associazione che suggerisce, promuove e sostiene l’azione che tende a creare ambienti aziendali favorevoli in tutto il Burundi. I vari settori sono l’agricoltura, l’estrazione mineraria, il turismo, i trasporti e l’arte. Essere competitivi in questi settori fa da supporto per le donne imprenditrici e le imprese focalizzate sulle province.
In una delle zone più povere del mondo, Consolata Ndayishimiye ha dato il coraggio a molte imprenditrici per costruire la propria azienda e con questo anche il loro rispetto di sé dopo i terribili eventi che il Paese ha attraversato. L’economia in Burundi è stata gravemente compromessa e deve essere ricostruita da imprenditori e uomini d’affari. Consolata ha dimostrato di essere la persona giusta per dare impulso a questo fondamentale processo.
FCCIB è l’unica organizzazione che copre tutto il Paese e tutti i segmenti del settore privato. Mentre il governo ha indicato il settore privato come motore importante per lo sviluppo del Paese, il FCCIB gioca un ruolo chiave per l’attuazione del piano degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, un progetto sostenuto dall’Università Cà Foscari di Venezia, ente capofila, Youth Center di Haskovo (Bulgaria), Apreis (Francia), Communauté Urbaine de Douala (Camerun) e Università di Koudougou (Burkina Faso).
Oggi, il FCCIB è l’unica organizzazione che dà voce agli interessi del settore privato verso governo, investitori e altre organizzazioni, contribuendo in modo significativo al miglioramento del clima imprenditoriale, e al generale miglioramento economico in Burundi.
Ecco una breve biografia di Consolata Ndayishimiye inviataci da lei stessa.
Consolata has developed a wide base of knowledge through several years of practical experience. She was elected to be the first female President of the Federal Chamber of Commerce and Industry of Burundi, which is a pioneering step in the international business community. She has been assigned as the chair person of the East Africa Business Council EABC from February 2011 to March 2012. Within this capacity she has been a global leader and representative for Burundi in different regional and international activities, mainly in the private sector initiatives.
She was selected as the U.S. Department of State’s Alumni Member of the Month for January 2012 in recognition of her role in empowering women entrepreneurs to become part of the business network in her country and the East Africa region.
She is a member of several boards such as the Burundi peace building Steering Committee, the Burundi Doing Business Steering Committee, the Burundi Investment Promotion Agency. In this role she has made awareness speeches, raised money, listened and convinced people to work toward improving the precarious situation of business climate of men and women in a post conflict country. This long-time entrepreneur and advocate for economic recovery believe that one of the key pillars for peace consolidation is the financial and economic independence of the people. She places key emphasis on women because by empowering a woman, we positively impact on the family, the community and the nation.
As her reputation continues to grow, she is involved in efforts of creating income generating activities for women. Her personal mission is to promote partnerships aimed at the common good. She believes that women should arise and make their voices heard in all matters that affect their lives. These include their economic, social, health and political well being. Through her own aspirations to promote gender equality, she created income generating opportunities through AFAB (Women Entrepreneurs Association) and the micro finance institution WISE (Women Initiative for Self Empowerment) through giving access to credit to hundreds of rural women. The Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA) thru FEMCOM has identified WISE as a model to emulate in the sub-region as part of COMESA gender policy.
She also mobilizes key stakeholders from the private sector, nongovernmental organizations, and the government to seek strategies and ways to improve the social and economic development for men and women in local and international settings.
Oggi l’economia del Burundi si fonda sulla coltivazione di caffè e cotone, ma anche del tè, che nel 2010 ha visto un aumento delle esportazioni di quasi il 40%, verso Kenya, Pakistan, Oman, Inghilterra.
La stessa capitale Bujumbura (800.000 abitanti) viene oggi descritta come un luogo giovane, spensierato e con tanta voglia di divertirsi. Dopo gli anni bui della guerra, la vita notturna di Bujumbura è esplosa e si moltiplicano i locali, i cocktail bar, i ristoranti e i night club, che stanno facendo della capitale burundese la meta di facoltosi clienti provenienti dai vicini Ruanda e Congo, ma anche di cooperanti, cinesi ed occidentali in viaggio d’affari. Bujumbura sta velocemente diventando un punto di riferimento per la regione dell’Africa Orientale.
La tensione però non è finita, secondo molte organizzazioni internazionali.
“Reporters Without Borders” denuncia una situazione di censura nei confronti dei media burundesi, che subirebbero pressioni per non fare trapelare un clima di instabilità seguito alle elezioni del 2010, che di fatto sarebbero state boicottate dall’opposizione. Ha suscitato grande clamore nel 2012 la condanna all’ergastolo di un giornalista dell’emittente privata Bonesha Fm e corrispondente di Radio France International, Hassan Ruvakuki, per complicità in terrorismo. Era stato arrestato perché stava lavorando sulla nascita di una presunta nuova ribellione burundese con base nella vicina Tanzania, il Fronte per il Ripristino della Democrazia (Fdr) di Pierre Claver Kabirigi.
Per Alexandre Niyungeko, presidente dell’Unione dei giornalisti del Burundi, il verdetto equivale a una “dichiarazione di guerra” contro la stampa.
Per il direttore di Bonesha Fm, la condanna del collega è “una vergogna per la giustizia burundese, per il governo e per l’intero paese”.
Ruvakuki aveva anche realizzato un’intervista scomoda fatta al governatore di Cankuzo dopo una serie di scontri tra ribelli e militari avvenuti nella provincia. Scontri che sono costati la vita anche al volontario italiano Francesco Bazzani.
Organizzazioni umanitarie di tutto il mondo hanno già criticato la sentenza. “E’ un compito di un reporter intervistare entrambi le parti di un conflitto”, ha dichiarato la “Committee to Protect Journalists” in una nota. “Questo è semplicemente quello che Hassan Ruvakuki ha cercato di fare. Abbiamo altri due gradi di giudizio per capovolgere la sentenza”.
Il giornalista è stato infatti liberato nel marzo di quest’anno, dopo che una sentenza di appello aveva ridotto la pena a tre anni di reclusione.
Scrive Marianna Micheluzzi sul suo blog “Jambo Africa”: “Questo è l’ennesimo episodio a conferma della impossibilità di avere in Burundi, e nell’Africa tutta, un giornalismo che possa dirsi critico a ragione e, quindi, libero.
Basta un sospetto o un nemico personale, o magari più di uno e anche potente, che si finisce con false accuse in galera.
Le organizzazioni della stampa locali e anche quelle dell’Onu hanno sempre denunciato questo andazzo fatto di continue intimidazioni. Ma sono rimaste inascoltate. E intanto il numero dei giornalisti scomparsi, uccisi o sbattuti in galera è in crescendo”.
Immagine da: http://www.embassyconsulates.com/burundi/maps-of-burundi.html
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